
Una passeggiata tra le porte del Ghetto di Venezia
Questo viaggio comincia varcando la soglia di una porta: benvenuti nel Ghetto di Venezia, antico quartiere ebraico, una città nella città.
La storia del Ghetto inizia nel 1516, ma in realtà l’isola del Ghetto stava già lì, circondata da canali poco distanti dalle principali vie d’acqua veneziane, e non era riservata agli ebrei. Zona poco abitata, era frequentata per lo più da chi lavorava in una fonderia e proprio questa diede nome all’insula: “gheto”, dal veneziano “geto”, con riferimento alle attività e agli scarti di una fabbrica veneziana. Questa è l’ipotesi oggi più accreditata sull’origine del toponimo.
Ma la parola “ghetto” è diventata da allora un lemma dalla concentratissima densità semantica. Questo processo si avviò proprio dal momento in cui l’Università degli Ebrei, in accordo con il Senato veneziano, usufruendo di una condotta, si stabilì nell’insula Gheto Novo, chiudendovisi all’interno.
Itinerario a piedi tra le porte del Ghetto di Venezia
La nostra prima porta, però, si apre sul Gheto Vecio, anzi, rimane aperta. I cardini, che si possono vedere e toccare con le punte delle dita, ci ricordano che i battenti sono stati divelti. Qui per secoli, fino all’arrivo di Napoleone nel 1797, i portoni venivano pesantemente richiusi al calar del sole per essere riaperti al suono della marangona, la più grande delle campane del campanile di San Marco, quella che dava inizio al giorno.
La soglia è buia e umida. Certi sotoporteghi, certe calli strette che svoltano all’improvviso, l’ingresso di alcune corti, qui a Venezia, sembrano portarti ad attraversare una membrana spazio temporale. Nel buio umido di questi pochi metri sembra si condensino migliaia di minuti e storie. Il Gheto Vecio corrisponde all’area concessa in seconda battuta agli ebrei. Vecchio e nuovo qui si riferiscono a quello che c’era prima rispetto al loro insediamento. Il Ghetto, infatti, è stato esteso nel tempo ad altre due aree, oltre alla prima insula, a mano a mano che la sua popolazione cresceva con l’arrivo di famiglie provenienti da nord e da sud, da est e da ovest: ashkenaziti e safarditi, esuli dalla penisola iberica e dall’Impero ottomano.
In calle del Gheto Vecio si sentono ben distinti i passi della gente, mentre si allontanano i rumori delle numerose barche che percorrono il Canale di Cannaregio lasciato alle spalle. Cambiano anche gli odori: l’umidità trasuda dai muri, ma il profumo del panificio Volpi la sovrasta. In vetrina si trovano specialità ebraiche e dolci tipici veneziani, un sovrapporsi di sapori che ben rappresenta l’intrecciarsi di tradizioni e culture in questo angolo di Venezia.
La calle sbuca nel Campiello delle Scuole, un piccolo slargo quadrato con una vera da pozzo al centro, chiuso su due lati da palazzine altissime e sugli altri delimitato da sontuosi edifici con grandi porte verdi: sono la Scola Spagnola e la Levantina, le Sinagoghe più grandi e lussuose. Le porte che colgono la mia attenzione nella bella Corte Mata e nella stretta Calle de l’Orto, sono invece porte murate. Lavori di ristrutturazione ai piani terra hanno occluso gli ingressi, ma rimangono le tracce di ciò che è stato: numeri civici, stipiti. Forse ora lì dietro ci sono spazi adibiti a magazzino. Spesso è così ai piani terra, ma qui sicuramente ha vissuto qualcuno, qualcuno che è stato portato via, trascinato fuori da quella porta ora murata: Achille Navarro, Lina Navarro, Amalia Navarro, Giuditta Aboaf, Regina Aboaf, arrestati in casa e deportati il 5 maggio 1944. Abitavano a Cannaregio n. 2014-2015.
Calle dell’Orto non ha uscite, finisce oltre un basso sotoportego in una corte soleggiata e silenziosa dove all’ultimo piano, il quinto, sventola un grido: “Venezia è viva”.
Il Gheto vecio è collegato al Gheto novo da un piccolo ponte da cui si coglie bene la natura insulare di Venezia. Sicuramente i canali che circondano questa piccola insula dalla forma regolare hanno costituito una facile possibilità di sorveglianza.
Questo è uno dei campi più ampi di Venezia, un grande vuoto circondato da mura che si interrompono solo dove si trovano i ponti: quello appena attraversato, quello verso la Fondamenta degli Ormesini che porta fuori dal Ghetto e infine quello verso il Gheto Novissimo, l’estensione del quartiere ebraico concessa nel 1633. Questi ponti sono anche porte.
Per esplorare questo spazio suggerirei due modalità. Portarsi al centro, tra le vere da pozzo e gli alberi – bagolari e olivi – e osservare quello che sta attorno: edifici insolitamente alti, finestre che rivelano a chi guarda con attenzione la presenza delle Sinagoghe più antiche, brevi sotoporteghi, mura e porte.
E poi spostarsi, invece, verso il perimetro ed esplorare con le dita le superfici: ogni pietra racconta una storia. E i polpastrelli possono scoprire la drammaticità del racconto dell’Olocausto nei bassorilievi dell’artista Arbit Blatas. Questi furono realizzati nel 1980 per commemorare le vittime della deportazione nazista che ha coinvolto il quartiere ebraico di Venezia durante l’occupazione nazista del 1943-45.
La parte più nuova del Gheto ebraico si trova oltre il rio del Gheto Nuovo ed è fornita di altre porte, ancora cardini, oggi vuoti, ma anche una porta d’acqua che rivela come le ragioni del commercio abbiano permesso, in questo quartiere sigillato, una sorprendente osmosi tra dentro e fuori. Da questa porta mi godo il lento sciabordare dell’acqua e il suo baluginio sui mattoni rossi e rosati.
Se hai voglia di conoscere il Ghetto di Venezia e le sue storie non esitare a contattarmi per un tour guidato, ti aspetto.
Articolo di Paola Salvato
paola.salv@gmail.com – Link
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