
Cuma e dintorni: dalla Magna Grecia alle architetture di Carlo Vanvitelli
Continuo la mia visita in questa Campania ricca di tesori e sorprese verso Cuma, affacciata sul mare, tra Bacoli e Pozzuoli, due laghi a delimitare approssimativamente le aree archeologiche e abitative: lago del Fusaro tra Cuma e Bacoli, lago d’Averno verso Pozzuoli. Un grande parco archeologico quello di Cuma, che rientra nel Parco archeologico dei Campi Flegrei, una delle più antiche colonie della Magna Grecia in Italia e più lontana dalla madrepatria, fondata attorno al 730 a.C. (Kyme) e abbandonata nel 1207 quando viene distrutta dalle armate napoletane.
Cuma e il ricco parco archeologico
Cuma terra degli Osci – La necropoli
Il territorio dove sarebbe sorta la colonia greca di Cuma era abitato fin dall’età preistorica (età del bronzo-età del Ferro) dagli Osci chiamati anche dagli archeologi Gruppo della Fossakultur, per la caratteristica soluzione adottata nei riti funerari.
Gli scavi nella vasta necropoli preellenica hanno luogo tra la fine dell’800 e inizi ‘900 e ancora più recentemente nel 2000 e ci raccontano della ritualità funeraria degli antichi abitanti dell’area. Nella “cultura delle tombe a fossa” il corpo veniva disteso supino, il capo rivolto a sud, ed era accompagnato da un corredo di utensili di uso quotidiano: vasi e oggetti per la filatura, ornamenti, collane per le donne, e rasoio e armi in bronzo per gli uomini. Alcuni oggetti di pregio ritrovati in scavi più recenti sono oggi conservati nel Museo archeologico nazionale di Napoli. I corpi venivano anche posti in casse di legno o tronchi scavati; gli infanti erano inumati in vasi.
Attorno alla metà dell’VIII sec.a.C. questa necropoli viene abbandonata.
Nel IX sec a.C. questa popolazione indigena aveva occupato il Monte Cuma, creando una roccaforte difensiva, e una vasta pianura prossima al mare, con una posizione vantaggiosa per dedicarsi sia alla agricoltura che al commercio marittimo.
Cuma colonia greca
Attorno al 730 a.C. i greci fondatori di Cuma, venivano dall’isola di Eubea e da Calcide; secondo la leggenda, scelsero di approdare in quel punto della costa perché attratti dal volo di una colomba o, secondo altre storie, perché colpiti da un fragore di cembali. Distrussero il villaggio esistente, e questa non è più leggenda, e occuparono l’area fondando la nuova città di Cuma (Kyme) sul promontorio, come i predecessori, per prevenire le incursioni dei nemici. I greci trovarono terreni particolarmente fertili ai margini della pianura campana e anche se marinai e commercianti per tradizione, i nuovi coloni di Cuma rafforzarono il loro potere politico ed economico anche lavorando la terra ed ampliando il loro territorio per difendersi dai popoli confinanti.
Cuma fu la colonia che diffuse in Italia la cultura greca, diffondendo l’alfabeto Calcidese che venne assimilato e fatto proprio da Etruschi e Latini. La presenza di questi insediamenti “letterati” in Campania in contatto con altre etnie quali gli Etruschi facilitò la trasmissione dell’alfabeto che raggiunse anche il Lazio agli inizi del VII sec a.C. dando luogo all’alfabeto latino.
Pithekoussai (Ischia), un’altra colonia greca
Un accenno anche all’altro insediamento che gli stessi Greci Eubei avevano fondato nell’isola di Ischia, a Lacco Ameno, nello stesso periodo attorno al 750 a.C., alla quale dettero il nome di Pithekoussai o Pithecusa. Gli scavi condotti dall’archeologo Buchner dal 1952 in avanti nella necropoli della vallata di San Montano, parlano di una comunità molto strutturata e aperta verso l’esterno che interagisce non solo con gli indigeni che abitano sulla costa antistante ma che partecipa a scambi con gruppi più lontani, tra essi i Fenici – dai quali i Greci avevano acquisito l’uso della scrittura – che commerciavano in merci di lusso nel Mediterraneo. Nelle tombe l’indicatore di ricchezza e rango del defunto era dato dal tipo di ornamenti e oggetti spesso importati e di pregio. Nelle necropoli di Pithekoussai e di Cuma c’erano anche individui non greci, cosa deducibile dal tipo di corredo funerario appartenente a contesti culturali diversi.
Cuma e la Sibilla
Tornando in terraferma, stretta attorno all’acropoli fortificata che allora si affacciava sulle acque del Tirreno, Cuma godeva di una posizione geografica molto favorevole tra collina e mare. Il Parco archeologico oggi comprende l’Acropoli, il Foro, la Grotta della Sibilla, l’Arco Felice e l’Anfiteatro, la città bassa e la necropoli che abbraccia un periodo lunghissimo a partire dal IX sec a.C. Sono ancora visibili le tracce delle fortificazioni e dei templi di Apollo e di Giove.
Un’altra giusta parentesi è necessaria per parlare della mitica Sibilla Cumana, sacerdotessa di Apollo che dimenticò di chiedere al dio oltre che l’immortalità anche la giovinezza, e mentre il suo corpo si consumava e spariva restò solo la voce. Nominata nel terzo libro dell’Eneide, quando Enea, alla ricerca della terra destinata dagli Dei al suo popolo, si reca a interrogare l’oracolo di Cuma, appunto la Sibilla.
Le Sibille, figure profetiche appartenenti alle religioni greca e romana, sono, sì, figure mitologiche ma anche personaggi storicamente esistiti in quanto vergini ispirate dal dio Apollo, dotate di virtù profetiche e in grado di fornire responsi spesso oscuri o di difficile interpretazione ma che erano anche suscettibili di essere interpretati a proprio piacimento. Gli antichi greci e latini con la parola “Sibilla” si riferivano a tutta la classe delle profetesse. Le Sibille più famose si trovavano a Cuma, a Delfi dove viene chiamata Pizia, in Africa e in Asia Minore. La leggenda vuole che la Sibilla, in quanto millenaria, passasse da un luogo all’altro per soggiornarvi a lungo e venisse poi designata con il nome del luogo, ma in realtà era la stessa profetessa. Nel II sec a.C. negli ambienti ebraici romanizzati, si sviluppa l’uso non solo di interpretare i suoi vaticini ma anche di raccoglierli e consultarli in caso di pericoli. Anche Cassandra era una Sibilla o Pizia, non era legata a nessun santuario e prediceva il futuro senza essere interrogata.
In conclusione, le Sibille che la storia ci tramanda sono almeno una trentina divise per gruppi con una appartenenza geografica. L’arte ha esaltato la figura della Sibilla attraverso espressioni pittoriche e statuarie di altissimo livello: Michelangelo nella Cappella Sistina, Jan van Eyck, Andrea del Castagno, Filippino Lippi, Perugino, Mantegna, Pinturicchio, Dante Gabriel Rossetti e altri ancora.
Per venire ai giorni nostri, inutile dire che l’antro della Sibilla, qui a Cuma – un lungo tunnel che termina in una stanza a tre nicchie – è una attrazione turistica sempre assai frequentata.
Cuma ricca e grande, Cuma città romana
Siamo nel 524 a.C. circa, tra una battaglia e l’altra, e furono tante, vinti gli Etruschi due volte, Cuma arriva a stabilire il suo predominio e il suo prestigio su quasi tutto il litorale campano fino a Punta Campanella, grazie anche alla abilità strategica di Aristodemo, tiranno ma capace pianificatore. Diodoro Siculo riferisce delle molte battaglie e del fatto che la campagna di Cuma veniva identificata con tutta la regione dei Campi Flegrei. Sembra che Cuma fosse assai più grande di Pompei. Il momento d’oro di potenza e ricchezza Cuma lo vive tra l’VIII e il VII sec.a.C. grazie anche al potenziamento militare e rinnovamento edilizio operato da Aristodemo. Furono anche create delle sub colonie a Baia, Pozzuoli, Napoli, Miseno e Capri.
Tra il 430 e il 420 Cuma cade sotto i Sanniti, ma per un tempo assai breve, pur conservando culti e costumi greci.
Con la conquista romana della Campania, a Cuma venne data, nel 334 a.C., la civitas sine suffragio per l’appoggio fornito durante le guerre puniche, e da allora Cuma si servì della lingua latina nei suoi atti ufficiali, restando fedele alleata di Roma e roccaforte difensiva, diventando un municipium. Ottaviano e Agrippa ne fecero una base navale nella guerra contro Pompeo.
Gradualmente Cuma si trasforma in una città romana grazie anche ad Augusto che decide nuovi abbellimenti ispirati al modello di Roma e alla sua “politica delle immagini”. Il ruolo di primo piano di Augusto si riflette positivamente sulla città della quale parla anche Virgilio nella Eneide e parla di Enea che discente agli Inferi dopo aver consultato la Sibilla Cumana, dando così a Cuma una fama eterna.
Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, visse gli ultimi anni della sua vita in esilio a Cuma dopo l’instaurazione della Repubblica romana, mentre con gli anni Cuma diventa un rifugio e una oasi di vita tranquilla per coloro che volevano cercare riposo dalla vita molto attiva di Puteoli (Pozzuoli).
Il declino e la fine di Cuma
Lentamente Cuma declinava e l’abitato si riduceva su quella che era la bellissima acropoli, mentre l’affermarsi della religione cristiana trasformava i suoi templi in basiliche e il Tempio di Giove diventò la cattedrale della diocesi di Cuma.
Altre guerre, invasioni e soprattutto le scorrerie dei saraceni creano le premesse perché le armate napoletane al comando di Goffredo di Montefuscolo potessero intervenire nel 1207 per porre fine a razzie, incursioni e terrore in tutto il golfo di Napoli. Pretesti, interessi politici o realtà che fosse, il fatto è che Cuma venne distrutta, restò disabitata e si trasformò in una zona paludosa a causa dell’interramento delle acque del Clanis e del Volturno.
Gli scavi
Per ritrovare spazi e dignità Cuma dovette aspettare la metà del XVII sec. e il Vicerè di Napoli Pedro Fernández de Castro, perché il fiume Clanis venisse irregimentato e portato a sfociare una decina di chilometri più avanti. Le rovine furono brevemente oggetto di alcuni primi scavi agli inizi del 1600 quando vennero trovate statue e bassorilievi e una statua di Giove. Quindi gli scavi furono abbandonati dagli esploratori borbonici in quanto attratti da altri siti archeologici.
Purtroppo, questi scavi occasionali e saltuari fatti prima dell’800, senza alcun parametro scientifico che aiutasse la classificazione dei ritrovamenti, sono stati probabilmente al centro degli interessi della antiquaria locale e delle famiglie nobili di Napoli e Pozzuoli che arricchivano le loro collezioni. Una vera campagna di scavi sistematici e documentari ebbe inizio a metà del 1800 e venne data in concessione a Emilio Stevens che lavorò a Cuma fino al 1893 tra interruzioni, saccheggi, problemi vari e allagamenti che distrussero parte della necropoli. Una parte dei reperti trovati è finita in una seconda collezione del Conte di Siracusa (1852-1857) ma è sprovvista di annotazioni, date e contesti vari.
Dal 1911 in poi ci sono stati diversi interventi di scavo sulla Acropoli, che hanno portato alla luce il Tempio di Apollo, esplorazioni e restauri. Dopo il 1924 sono stati scoperti il Tempio di Giove, la Cripta e le Terme. Una larga parte dei ritrovamenti è conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ma alcune vetrine e sale del Museo del Castello Aragonese di Baia espongono contenuti altrettanto interessanti e unici. E tra questi, bellissima, la Tomba Dipinta, di recente rinvenimento con decorazione “a fresco”. Sulla parete di fondo c’è la scena di un banchetto funerario con al centro un uomo sdraiato su una “kline” (lettino) vestito con una tunica decorata e porta sul capo una corona di fiori di melograno identica a quella della moglie che gli è accanto seduta su uno scranno più basso. Dietro la “kline” una ancella versa il vino in una coppa. Nel contesto delle necropoli italiche si sono rinvenute alcune tombe affrescate. Quanto poi ai diversi riti funerari sono state riscontrate molte similarità tra le due necropoli di Cuma e di Pithekoussai (isola d’Ischia).
La necropoli di Cappella
Lascio Cuma e la visione delle vaste rovine un po’ frastornata dalle molte informazioni e storie. Ma prima è bene comunque menzionare anche un’altra necropoli, più piccola e poco distante, quella di Cappella che si trova ai margini del centro urbano della antica Miseno, sull’asse viario che la collegava con Cuma. Si conservano alcuni nuclei di camere sepolcrali, monumenti funerari e tombe a fossa. L’arco cronologico delle sepolture va dal I sec a.C. fino a metà del V sec. I monumenti conservano parte degli affreschi sulle volte.
I resti della necropoli sono rimasti sempre in vista e visitati dagli eruditi viaggiatori del Gran Tour che erroneamente vedevano in questa zona un circo romano con celebrazioni, giochi, corse di cavalli, forse fuorviati dalla presenza di un obelisco. Successivamente il luogo è stato riconosciuto come una necropoli con tombe monumentali sulle quali sono state ritrovate iscrizioni che ricordano la presenza della flotta di Miseno e che hanno fornito molte informazioni sui marinai e sulla organizzazione della flotta.
Il lago Fusaro e il Villino Vanvitelli
Mi attende, in chiusura di giornata, il Lago Fusaro e il bel villino di Carlo Vanvitelli. Il luogo è sereno, con un panorama rilassante, la possibilità di passeggiate sul lungolago e nel parco e l’osservazione di uccelli. I tramonti sono da cartolina.
Anticamente qui esisteva un golfo, in seguito si è formata una duna che ha creato il lago, piccola laguna salmastra che viene utilizzato per la coltivazione di pesci e mitili. Il lago comunica con il mare attraverso due canali, uno di epoca romana e l’altro voluto da Francesco II di Borbone per consentire il ricambio d’acqua. I Romani sulle sponde del lago costruirono numerose ville e stabilimenti termali. Il lago fu “riscoperto” verso la metà del ‘700 e usato come riserva reale per la caccia e la pesca e in quell’epoca venne costruito il Real Casino Borbonico (1782) da Luigi e Carlo Vanvitelli, gioiello di architettura tardo barocca.
Il bel villino di Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi, sorge a breve distanza dalla riva del lago, collegato alla sponda da un grazioso ponticello. Venne costruito nel 1739 dall’architetto Carlo su progetto elaborato inizialmente con suo padre Luigi Vanvitelli, autore della Reggia di Caserta, su commissione di Ferdinando IV di Borbone Re del Regno di Napoli, destinato a luogo di riposo del Re dopo le battute di caccia e di pesca.
Il villino ha pianta dodecagonale e si sviluppa su due piani terrazzati. Al piano superiore poteva accedere solo la famiglia reale, mentre, al piano terra, la sala circolare detta delle Meraviglie, era destinata a incontri e serate di gala. Anticamente, quasi a dare continuità visiva tra il paesaggio esterno del lago e quello interno, tra una finestra e l’altra, erano appese Le Quattro Stagioni del pittore paesaggista Filippo Hackert.
In seguito, il Villino, o Real Casino, venne utilizzato per ospitare illustri personaggi in visita.
Memoriale
Nei giardini antistanti il lago c’è un vagone ferroviario parcheggiato tra gli alberi, con un cartello, con la stella di Davide, posto a memoria di quanto accaduto nei drammatici anni tra il 1943 e il 1945. Questo è uno dei vagoni nei quali venivano stipati cittadini italiani di religione ebraica e non, per essere deportati in campi di concentramento e di sterminio. In questo luogo di serenità e bellezza, si è voluto ricordare coloro che non hanno potuto goderne per un vergognoso atto di disumanità come recita il Memoriale.
Si conclude con la visione rasserenante di un chiaro tramonto anche questa esperienza tra l’antica Cuma e i suoi dintorni.
Articolo di Daniela di Monaco
Foto di Alessandro Parisi, Daniela di Monaco
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